UN ANNO DOPO IL MOTU PROPRIO DI BENEDETTO XVI



 L’analisi di un sacerdote vicentino che ha partecipato al dibattito sulla liberalizzazione della messa Tridentina

«Rito in latino, una messa per tutti»

«Il Papa non intendeva riportare le lancette al 1962, cioè all’anno del vecchio Messale»

Don Pierangelo Rigon

Ancignano



Poco più di un anno fa, esattamente il 14 settembre, entrava in vigore il motu proprio di Benedetto XVI sulla liberalizzazione della cosiddetta Messa tridentina, di San Pio V, o più semplicemente ma con imprecisione, “Messa in latino”. La Messa nella quale, dice e scrive ancora qualcuno con senso di ripulsa, “il sacerdote volge le spalle ai fedeli”.

Anche a Vicenza, nella chiesa di San Rocco, a partire dalla prima domenica di ottobre, i fedeli che lo desiderano potranno, con serenità, partecipare alla Sacra Liturgia celebrata in questa particolare forma storica.

La scelta di mons. Nosiglia si colloca sulla scia di molte altre analoghe da parte di tanti vescovi nelle più diverse parti del mondo, ma è facile prevedere che le discussioni intorno a questo tema, anche in casa nostra, continueranno ancora per molto.

Qual è stato, ma più ancora quale sarà l'impatto pastorale, liturgico, ecclesiale in genere, di un tale evento, lo dirà la storia.

Noi siamo appena alle cronache, all’ascolto di chi ha gridato al tradimento dello spirito innovatore del Concilio Vaticano II o di chi ha annunciato, con gioia, che è solo l’inizio del pieno ritorno allo status quo ante.

A mio modesto avviso, il Papa non intendeva riportare le lancette dell'orologio della Chiesa e del mondo al 1962, cioè all'anno dell'ultima edizione - da parte del beato Giovanni XXIII - del vecchio Messale. Il suo desiderio, lo dice espressamente, era quello di riappacificare gli animi, di consentire la piena comunione di quanti si erano allontanati dalla Chiesa cattolica anche, ma non solo, a motivo del cambiamento del rito. Per intenderci, i seguaci del vescovo Lefebvre.

Questo nobile e generoso gesto non sembra aver sortito, purtroppo, almeno per ora, il desiderato effetto, almeno in questa direzione. Non c'è solo, infatti, la richiesta legittima del'antico rito a fare da sfondo alla complessa questione del tradizionalismo estremo di costoro. C'è pure l'aperto rifiuto del Concilio Vaticano II in blocco. C'è addirittura, nelle frange più estreme, la contestazione dell'autorità pontificia spinta fino al sedevacantismo che fa ritenere illegittimi tutti i Papi eletti dopo Pio XII.

Il motu proprio, però, se non ha accontentato questi “insaziabili”, come ha di recente pittorescamente definito il card. Hoyos coloro che vorrebbero molto e molto di più, come ad esempio che la basilica papale di Santa Maria Maggiore sull’Esquilino, a Roma, fosse riservata esclusivamente alla celebrazione secondo l’antico rito, ha recuperato alla Chiesa molti altri.

Quanti sentivano impoverita la preghiera della Chiesa in mancanza di esso, quanti lo aspettavano senza nostalgie risibili ma quale opportunità e dono e anche - perché no? - quegli uomini e donne di cultura che, pur non praticanti assidui, avevano osservato il declino e poi il rifiuto aperto di una magnifico edificio costruito con la pazienza dei secoli in un mirabile fondersi di arti diverse: l’architettura, la musica, il linguaggio, in generale “lo stile" (che oggi si preferisce chiamare “ars celebrandi").

Conosciamo tutti assai bene tutte le obiezioni davanti a richieste che partono da simili presupposti: il mondo cambia; occorre parlare la lingua di oggi; i nostri contemporanei non conoscono più determinati segni e così si sentono spaesati in un simbolismo ben diverso da quello propagandato, mettiamo, dei rituali sportivi o del divertimento; le chiese non sono musei.

Anche papa Ratzinger conosceva e conosce queste obiezioni ma, da uomo intelligentissimo quale tutti riconoscono essere, non si è lasciato incantare da queste sirene: ha studiato, si è confrontato, ha pregato ed infine, con coscienza libera ed illuminata, ci ha dato il motu proprio che passerà alla storia con il nome di “Summorum Pontificum".

Si è appena svolto, a Roma, un convegno organizzato da un gruppo ecclesiale denominatosi “Giovani e Tradizione” e con il Patrocinio della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”. L’assise, alla quale sono stato ben felice di poter partecipare, intendeva fare un bilancio del motu proprio ad un anno di distanza, un primo tentativo, dunque, di cogliere nella possibilità concessa da papa Benedetto una vera “ricchezza spirituale per tutta la Chiesa”.

Purtroppo le ideologie, anche teologiche, pastorali e liturgiche, non permettono ancora di parlare dell’uso del Messale del 1962 con sufficiente lucidità e apertura mentale. La rigidità di certi schemi che vorrebbe opporre conciliaristi e anticonciliaristi impediscono la serenità di un dialogo sicuramente fruttuoso tra le diverse anime del cattolicesimo.

Ci sono oltranzisti da entrambe le parti: chi considera la Chiesa solo a partire dal 1965 (anno di chiusura del Concilio Vaticano II) e ha stabilito che non ci può essere nulla di stabile, tanto meno le norme liturgiche lasciate al fluttuare della fantasia dei “presidenti di assemblea”; chi vorrebbe cancellare con un colpo di spugna gli ultimi quarant’anni di storia della Chiesa e del mondo e si attarda a discutere sulla lunghezza dei manipoli, rendendo, proprio così, un infelice servizio alla bellezza e alla bontà dell’antico rito riportato agli onori delle cronache.

Naturalmente, sia chi si trova da una parte che chi sta dall’altra qualifica la sua come una vera e propria “missione” di amore alla Verità e alla Chiesa. Alle volte si ha l’impressione di un guazzabuglio che disorienta i nostri fedeli e certo non li aiuta a trovare, nella preghiera pubblica, cioè nella Liturgia, un autentico alimento per la propria vita interiore.

Proprio lì, al Convegno romano cui facevo cenno, si diceva che dobbiamo imparare da Benedetto XVI la pazienza e la testimonianza dei piccoli gesti.

Mons. Guido Marini, nuovo maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie, di certo in accordo con il Santo Padre, ha dato disposizione perché sugli altari nei quali celebra il Papa la croce stia al centro (e non importa se impedisce alla gente di vedere la faccia di chi presiede, non è poi così importante!), nella Cappella Sistina ha fatto rimuovere l’altare provvisorio e ha così ridato lustro all’orientamento tradizionale della preghiera cristiana, al momento della S. Comunione dei fedeli ha fatto porre un inginocchiatoio perché si riscopra, insieme con la comunione sulla lingua, il senso di un altissimo rispetto dovuto all’Eucaristia e progressivamente illanguidito nella coscienza di molti che vi si accostano con atteggiamenti vicini al sacrilegio, sia pur, si presume, non cosciente e quindi formalmente non colpevole.

La parola “tradizionalisti” ha un’accezione negativa e spesso, dopo lo scisma provocato dalle illecite ordinazioni episcopali del 1988, si sovrappone addirittura a “scomunicati” e allora, pian pianino, stanno prendendo piede i “benedettiani”. Il termine, di nuovo e felice conio, indica quelle persone che intendono dare attuazione ai desideri del Papa che oggi guida la Santa Chiesa Cattolica intorno alla Liturgia.

Sono idee note, perché l’allora card. Ratzinger le aveva espresse in numerose interviste fattegli, in varie pubblicazioni apparse, soprattutto in quel saporoso volume dal titolo “Introduzione allo spirito della Liturgia”.

Ora il card. Ratzinger è papa Benedetto XVI; l’illustre e raffinato teologo, il solerte prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, è il Vicario di Cristo in terra, il Pastore di tutto il gregge.

Quelle che potevano essere considerate, e che tanti con un po’ di sufficienza orgogliosa consideravano, opinioni autorevoli ma private, divengono chiare indicazioni per tutti i fedeli cattolici.

Non è più il tempo delle diatribe, ma della accettazione, anche, di questo chiaro “segno dei tempi”. A noi è dato di vivere questo tempo, nel quale possono convivere l’antica maniera di celebrare il Divino Sacrificio dell’altare, con la nuova ritualità espressa dalla Riforma seguita al Concilio Vaticano II.

Non sappiamo che cosa potrà accadere in futuro: se tale fase possa venir superata con una “riforma della riforma” che accontenti tutti producendo un nuovo rito o se la distinzione tra Liturgia ordinaria e straordinaria si consolidi in permanenza.

Noi possiamo essere solo contenti perché, come ha detto Benedetto XVI ai vescovi di Francia, tutti devono potersi sentire a casa loro, nella Chiesa.

Sì, proprio tutti! Anche quelli che amano il latino, il canto gregoriano, la preghiera verso oriente (o versus Deum), il prolungato silenzio della celebrazione, la fissità dei gesti a indicare un patrimonio di fede che non sopporta creatività arbitrarie e protagonismi clericali.

Che anche nella nostra amata Chiesa di Vicenza vi sia la possibilità di utilizzare serenamente il Messale di Giovanni XXIII è davvero un segno di maturità e di libertà. A mons. Vescovo, dunque, l’attestazione della gratitudine per questo gesto di bontà e di accoglienza di tutto ciò che può esservi di buono e di bello nella grande Tradizione ecclesiale.

© Copyright Il Giornale di Vicenza, 28 settembre 2008