Intervista
Ieri come oggi c’è chi vorrebbe ridurre la Messa a “palestra di socialità”
“Il Papa frenato da forze negative”
Mons. Negri fa il punto sulla riforma della riforma
Paolo Facciotto
DOMAGNANO - “Nel rapporto con la liturgia si decide il destino della fede e della Chiesa”: lo dice Joseph Ratzinger-Benedetto XVI nel primo volume della sua opera omnia, “Teologia della liturgia”. Il 27 novembre ai Vespri d’inizio Avvento, il Papa ha inoltre definito la liturgia “il luogo dove viviamo la verità e dove la verità vive con noi”.
Affrontiamo questi temi a tu per tu con il vescovo di San Marino - Montefeltro, mons. Luigi Negri, che si prepara alla visita del Papa nel 2011.
Eccellenza, il tratto distintivo di questo pontificato è il rapporto tra fede e ragione: perché insistere sulla liturgia?
«La liturgia è la vita di Cristo che si attua nella Chiesa e coinvolge esistenzialmente i cristiani. La liturgia non è semplicemente un culto che si elevi dall’uomo a Dio, come nella stragrande maggioranza delle formulazioni religiose naturali.
La liturgia è l’attuarsi ampio dell’avvenimento della vita, passione, morte e resurrezione del Signore che prende forma nell’organismo sacramentale e coinvolge i cristiani in senso sostanziale e fondamentale, facendoli appartenere a Cristo e alla Chiesa attraverso i sacramenti dell’iniziazione cristiana, e poi li accompagna nelle grandi scelte e nelle grandi stagioni della loro vita. Nelle grandi scelte vocazionali - matrimonio, ordine - o nelle stagioni della vita. Ora, la liturgia difende la fattualità di Cristo e della Chiesa. Per questo ho molta gratitudine verso il professor De Mattei, il suo straordinario volume sulla storia del Vaticano II e le pagine dedicate a un lento e inesorabile “socializzarsi” della liturgia, già prima del Concilio: come se il valore della liturgia fosse nella possibilità che il cosiddetto popolo cristiano partecipasse attivamente a un evento che era poi svuotato di fatto della sua sacramentalità e finiva per essere un’iniziativa di socialità cattolica.
E io credo che sulla liturgia si giochi la verità della fede perché si gioca la grande alternativa che Benedetto XVI ha messo all’inizio della “Deus caritas est”: il cristianesimo non è un’ideologia di carattere religioso, non è un progetto di carattere moralistico, ma è l’incontro con Cristo che permane e si svolge nella vita della Chiesa e nella vita di ogni cristiano.
La liturgia rende il fatto di Cristo presente nel flusso e nel riflusso delle generazioni: “Fate questo in memoria di me”. Io credo che anche la difesa di una coscienza esatta del dogma dipenda dalla verità con cui viene vissuta la liturgia. In questo senso da sempre la Chiesa ha affermato che “lex orandi, lex credendi”: è la legge del pregare che fa nascere la legge del credere, ma soprattutto che la vigila in maniera adeguata e positiva.»
Due aspetti mi sembrano centrali nel libro di Ratzinger “Teologia della liturgia”: la prevalenza purtroppo verificatasi, di un senso della messa come assemblea, “evento di un determinato gruppo o Chiesa locale”, cena, quindi la partecipazione intesa come l’agire di varie persone che secondo l’autore si trasforma talvolta in parodia. E poi la celebrazione verso il popolo che per una serie di equivoci e fraintendimenti “appare oggi come il frutto del rinnovamento liturgico voluto dal Concilio”, scrive il Papa: conseguenze, la comunità come cerchio chiuso in se stesso, e una clericalizzazione mai vista prima dove tutto converge verso il celebrante.
«Io sono d’accordo che il Papa dovrà continuare una “riforma della riforma” liturgica del Concilio, usando un’espressione di don Nicola Bux. Ma deve essere detto con estrema chiarezza che il Papa sta facendo fatica a fare questa “riforma della riforma”.
Esistono delle tendenze negative di resistenza, neanche tanto passiva. La riforma liturgica venuta dopo il Concilio, il più delle volte si è sostanziata di pseudo-interpretazioni, o ha fatto valere casi eccezionali come norma - basti per tutti il problema della lingua, o quello della distribuzione della comunione sulla mano. Ci sono stati veri e propri colpi di mano delle Conferenze episcopali nei confronti di Roma.
C’è stata certamente una debolezza della reazione vaticana, dovuta probabilmente a tensioni e contro-tensioni anche all’interno delle strutture che dovevano regolare l’interpretazione esatta e l’attuazione del Concilio. Ora, pur tenendo presente questi dati condizionanti con cui un governo della Chiesa deve fare realisticamente i conti, l’alternativa è fra una sociologizzazione della liturgia - come dire, un funzionamento adeguato delle leggi e dei comportamenti della comunità cristiana radunata per celebrare l’eucaristia, che diventa il soggetto della celebrazione eucaristica, anziché l’interlocutore privilegiato - e il riportare al centro il vero soggetto della celebrazione eucaristica, che è Gesù Cristo in persona. La struttura della tradizione liturgica così come anche la Chiesa del Concilio l’ha ricevuta, salva i diritti di Cristo e la presenza di Cristo. Allora tutto ciò che viene fatto per estenuare o ridurre la coscienza della presenza di Cristo a tutto vantaggio della modalità con cui la comunità è presente, è una perdita del valore ultimo della liturgia, del valore ontologico, direbbe don Giussani, e quindi metodologico e educativo. Nel tempo in cui andava in vigore per la prima volta la riforma del Concilio Vaticano II, una altissima personalità vaticana - non posso dirle quale, ma è vero perché l’ho letto coi miei occhi - scrisse che così finalmente la celebrazione della messa ritornava ad essere “una sana palestra di socialità cattolica”. Anziché la memoria della presenza di Cristo che muore e risorge, che crea il popolo nuovo, che sostiene e lancia il popolo nuovo nella missione, “una sana palestra di socialità cattolica”.»
Mi può dire almeno se era un gradino più in su di monsignor Bugnini?
«Molti gradini più in su di monsignor Bugnini.»
“In Italia, salvo poche lodevoli eccezioni, i vescovi e i superiori degli Ordini religiosi si sono opposti all’applicazione del motu proprio”: lo ha dichiarato pubblicamente il vicepresidente della Pontificia Commissione Ecclesia Dei a un anno di distanza dalla “Summorum Pontificum” con cui Benedetto XVI ha “liberalizzato” la liturgia tradizionale tridentina. Una denuncia molto forte di disobbedienza dell’episcopato italiano. A che punto siamo nell’applicazione del motu proprio? Nella sua diocesi, sono presenti celebrazioni della liturgia nella forma straordinaria del Messale Romano del 1962?
«Io ho cercato di attuare, oltre che di recepire e di spiegare al mio clero il senso profondo di questo motu proprio, che per me è una possibilità data a chi vuole nella Chiesa di valorizzare una ricchezza più ampia e articolata di quello che è a disposizione di tutti. E’ come se il Papa avesse riaperto la possibilità di una celebrazione liturgica che il singolo e il gruppo sente più corrispondente al suo desiderio di crescita e ai suoi princìpi.
Devo dire però che sono mancate fino ad ora le norme applicative, che noi stiamo aspettando da anni.
Sostanzialmente per quello che si può fare oggi, là dove il vescovo ha obbedito, come nel mio caso, si celebrano non molte, ma tutte quelle messe che sono state chieste, secondo la modalità precisamente identificata dal motu proprio. Quando precedentemente ho detto che il Papa fa fatica a far passare la “riforma della riforma” avevo esattamente in mente un motu proprio che manca, a più di tre anni dalla sua promulgazione, delle dimensioni applicative. Ma mi pare che il rifiuto, la resistenza siano stati non tanto sul motu proprio, bensì sul fatto che la riforma liturgica del Vaticano II, così come i testi vengono interpretati e come la liturgia si è andata determinando, sembra non possa più essere messa in discussione. La resistenza è sulla possibilità stessa, che invece il Papa ha aperto, di avere altre forme di attuazione della vita liturgico-sacramentale: è questo in questione, non le applicazioni. Mentre il Papa ha detto: c’è una ricchezza liturgico-sacramentale a cui tutta la Chiesa, se vuole, può accedere senza che tutto sia ricondotto a una sola forma; secondo me, c’è un largo strato della ecclesiasticità che ritiene che invece la riforma del Concilio Vaticano II azzeri tutto ciò che vien prima. E’ quella ermeneutica della discontinuità su cui il Papa è intervenuto con molta chiarezza e decisione.»
Per un sondaggio della Doxa il 71% dei cattolici troverebbe normale che nella propria parrocchia convivessero le due forme del rito romano, tradizionale e nuovo. Il 40% di chi va a messa tutte le domeniche, se la trovasse in parrocchia, preferirebbe andare tutte le settimane alla messa di san Pio V. Come commenta questi dati, da prendere con le molle come ogni sondaggio?
«Rimango dell’avviso che, a parte questi dati, oggi la Chiesa deve essere molto disponibile a offrire forme e modi di partecipazione alla vita di Cristo, che corrispondano nella loro diversità alla diversità inevitabile che esiste fra gli uomini e fra i giovani. Io credo che ci debba animare un sincero entusiasmo missionario. Nel momento in cui le chiese si svuotano e ci sono tante difficoltà a una percezione adeguata del mistero di Cristo e della Chiesa, tutto ciò che può facilitare questo va utilizzato, ma non per affermare le proprie opzioni ideologiche! Lo scontro tradizionalismo-progressismo non ha più ragion d’essere, e di questo superamento siamo veramente debitori a Benedetto XVI. Sono contrapposizioni ideologiche che ipostatizzano punti di vista, sensibilità, forme, anziché chiedersi che cosa serve di più la missione della Chiesa e quindi il suo compito educativo.»
Come celebrava messa don Luigi Giussani? Qual era il suo pensiero sulla liturgia e come recepì la riforma?
«Ho visto Giussani celebrare secondo il rito di san Pio V: lo celebrava con la consapevolezza profonda di diventare protagonista di un evento di grazia che apriva al cuore e alla vita degli uomini. E l’ho visto celebrare secondo la liturgia riformata, allo stesso modo. Giussani andava all’essenziale ed era per sua natura non incline a sottolineare eccessivamente i particolari. Non posso dire come ha reagito alla riforma perché a memoria mia non ne abbiamo mai parlato, né fra noi due, anche se abbiamo avuto centinaia di ore di colloquio su tutti i problemi della vita della Chiesa e della società, né pubblicamente. Ma l’immagine della liturgia che aveva è contenuta in quel bellissimo volumetto “Dalla liturgia vissuta, una proposta”. Credo che la liturgia tradizionale come la liturgia riformata, se si mantengono nella identità che viene riconosciuta loro dal magistero, possano favorire che una vita diventi una proposta di vita: la liturgia è una vita, la vita di Cristo coi suoi, che diventa proposta di vita. Non credo che fosse disposto a morire per salvare la liturgia di san Pio V, ma non credo neanche - per come l’ho conosciuto in cinquant’anni di convivenza - che dicesse immediatisticamente che la liturgia del Vaticano II fosse la migliore possibile. Anzi, credo che come su altre questioni del Concilio Vaticano II, avesse qualche difficoltà interpretativa, come poi adesso è riconosciuto da parte della stragrande maggioranza dei pastori e dei teologi intelligenti. E’ così vero che dopo quarant’anni, Benedetto XVI dice che comincia adesso una vera interpretazione del Concilio.»
Che caratteristiche avrà la parte religiosa ed ecclesiale della visita del Papa a San Marino nel 2011?
«Ci sarà una celebrazione della Messa a San Marino per tutta la diocesi, allo stadio di Serravalle, la mattina del 19 giugno, secondo il programma ufficioso che piano piano sta diventando ufficiale.»
In questi giorni Lei è stato fatto oggetto della osservazione di un giornalista, su di un giornale laico, sulla sproporzione fra la sua personalità - “punta di diamante” - e la diocesi che Le è stata affidata, definita “diocesi da operetta”...
«Sono grato a questo giornalista per gli elogi, anche un po’ immeritati, che mi ha fatto, non soltanto in questo caso ma anche in altri momenti. Nei cammini tortuosi che si concludono con una provvista di una determinata chiesa particolare, oppure di una responsabilità anche centrale nella conduzione della Chiesa, nessuno, meno che mai il sottoscritto, è così ingenuo da non capire che ci sono movimenti, contro-movimenti, reazioni, contro-reazioni, interessi, solidarietà, che hanno un grosso peso. Io stesso ho scritto qualche cosa sul carrierismo nella mia rubrica “Opportune et importune” su “Studi Cattolici”, perciò tutta questa fenomenologia di una presenza di atteggiamenti politici non mi risulta così eccezionale o scandalosa. Io sono di quella generazione di preti e di vescovi che ritiene che comunque alla fine, e sopra tutto questo sciabattare di correnti, contro-correnti, amicizie, veti incrociati, sta la volontà di Dio interpretata dal Santo Padre. Quando il Santo Padre ti chiama puoi essere certo che è Dio che ti chiama, e se ti chiama a quella realtà a cui ti chiama, è perché Iddio ritiene che sia il meglio per te in quel momento. E’ con questo stato d’animo, molto abbandonato alla volontà di Dio e molto lieto, che io faccio il vescovo di una diocesi definita “da operetta” da qualcuno; ma mi pare di aver portato questa diocesi a una sua presenza e a una sua visibilità nel contesto ecclesiale e sociale italiano, e non solo.»
D’altra parte molte nomine vanno a persone non sempre all’altezza delle responsabilità loro affidate, un problema grave oggi, quando la Chiesa dovrebbe dare il massimo quanto a vigore della proposta culturale e pastorale. Eccellenza, non crede che ciò sia un freno o un impedimento alla missione della Chiesa?
Ma qui monsignor Negri non risponde e chiude il colloquio. Mi guarda profondamente coi suoi occhi chiari e fa silenzio.
E’ il giorno di santa Lucia, il pomeriggio sta per cedere alla “notte più lunga che ci sia”. A Domagnano scendono i primi radi fiocchi di neve. Invece più giù, a Rimini, tutto si scioglie in acqua.
© Copyright La Voce di Romagna, 15 dicembre 2010