Durante la celebrazione che due giorni fa ha portato alla beatificazione il suo predecessore al soglio di Pietro, Benedetto XVI ha fatto capire diverse cose.
Anzitutto che egli non ha mai dubitato della santità di Karol Wojtyla. “Già in quel giorno noi sentivamo aleggiare il profumo della sua santità”, ha detto Joseph Ratzinger ricordando ciò che egli sentì dentro di sé sei anni fa, il giorno in cui celebrò i funerali del Papa polacco.
Ma, insieme, egli ha voluto dire perché Wojtyla merita oggi di divenire beato e perché in futuro meriterà, nessuno in Vaticano ne dubita, la santità. “Giovanni Paolo II è beato per la sua fede, forte e generosa, apostolica”, ha detto Ratzinger. La fede fu il segreto di Giovanni Paolo II. La fede in Dio che è “trascendente rispetto alla storia, ma che pure incide sulla storia”.
Questa era la sua chiesa, un’istituzione rocciosa che non ha paura di avere fede e di incidere dentro la storia senza restare a essa laterale. E’ un’idea di chiesa precisa. Un’idea che molto piace a Ratzinger.
Dal Vaticano più volte nelle ultime settimane sono arrivati segnali di questo tipo: con la beatificazione di Wojtyla non si innalza un pontificato quanto un grande uomo.
Benedetto XVI due giorni fa è voluto andare oltre. E dire che chi viene beatificato è anche un Pontefice che ha voluto incarnare in sé un modello di chiesa forte, presente, viva. Una chiesa del coraggio contrapposta a una chiesa della paura, del ritiro, del nascondimento fine a se stesso. Wojtyla, ha detto il Papa, era un “esemplare figlio della nazione polacca” che “ha aiutato i cristiani di tutto il mondo a non avere paura di dirsi cristiani, di appartenere alla chiesa, di parlare del Vangelo”. In una parola, “ci ha aiutato a non avere paura della verità, perché la verità è garanzia di libertà”.
L’idea di chiesa di Wojtyla non piaceva a tutti, anche dentro la chiesa. Dice Sandro Magister: “Di lui molti diffidavano. Per tanti era il ‘Papa polacco’, rappresentante di un cristianesimo antiquato, antimoderno, di popolo. Di lui guardavano non la santità ma la devozione, che non andava a genio a chi sognava un cattolicesimo interiore e ‘adulto’, tanto amichevolmente immerso nel mondo da diventare invisibile e silenzioso”.
A questo cristianesimo Wojtyla ne contrappose un altro, genuino, coraggioso. “Ha aperto a Cristo la società, la cultura, i sistemi politici ed economici, invertendo con la forza di un gigante – forza che gli veniva da Dio – una tendenza che poteva sembrare irreversibile”, ha detto ancora Ratzinger. Una forza che ha contrapposto anche alle ideologie del tempo. Tra queste il marxismo la cui “carica di speranza egli ha legittimamente rivendicata al cristianesimo, restituendole la fisionomia autentica”.
E’ vero: c’erano i collaboratori di Wojtyla che con i regimi comunisti dialogavano senza sosta – “Agostino Casaroli, segretario di stato vaticano fino al 1990, fu scelto perché tra i pochi ad avere caratteristiche che implementavano il Papa”, spiega Andrea Riccardi nella sua biografia su Wojtyla – ma oltre la dipomazia c’era un uomo avverso a quei regimi, un uomo che sapeva chi era il nemico e quale idea, quale manifesto, a esso contrapporre. Ha detto Benedetto XVI: “Wojtyla salì al soglio di Pietro portando con sé la sua profonda riflessione sul confronto tra il marxismo e il cristianesimo, incentrato sull’uomo. Il suo messaggio è stato questo: l’uomo è la via della chiesa, e Cristo è la via dell’uomo”.
Certo, non è un mistero che Ratzinger non condividesse tutte le pieghe del pontificato di Wojtyla. Tra queste l’eccesso di trionfalismo. Alla vigilia del Giubileo egli confidò ai giornalisti di essere “un po’ tra quelle persone che hanno difficoltà a trovarsi in una struttura celebrativa permanente”.
Poi, alla presentazione di un fascicolo dedicato all’anno giubilare, l’allora prefetto dell’ex Sant’Uffizio citò un giudizio di Giovanni Papini sul Giubileo del 1950, il quale si lamenta che “moltissimi, troppi, ne discorrono (del Giubileo) come se dovesse essere una fruttuosa stagione turistica”. Ma un conto è l’eccesso di trionfalismo dietro il quale Ratzinger vedeva molta superficialità – la superficialità di coloro che si fermavano agli applausi senza andare alla radice, al cuore che era il segreto del successo di Wojtyla – un altro è il coraggio della fede, ostentato non per vanagloria bensì per una strategia studiata di presenza nel mondo. Una politica precisa.
Benedetto XVI non ha citato, due giorni fa, i tanti mea culpa di Giovanni Paolo II. Non ha parlato dei raduni interreligiosi promossi del Pontefice, né delle innummerevoli adunate oceaniche alle quali hanno partecipato migliaia di giovani. Insieme, nulla ha detto dell’unico tema per il quale i media negli ultimi mesi hanno speso fiumi di parole su Giovanni Paolo II: la pedofilia nel clero e le presunte coperture offerte ai preti dal Papa polacco fino al silenzio su Marcial Maciel, il fondatore dei Legionari di Cristo. Si è limitato, Benedetto XVI, a dire perché egli ammira il suo predecessore e perché, oltre i trionfalismi e le ombre, per lui egli è già santo.
Pubblicato sul Foglio martedì 3 maggio 2011
Fonte: PalazzoApostolico