La difesa del Papa mossa l’altro ieri dal cardinale Angelo Bagnasco è piaciuta parecchio ai fedelissimi di Benedetto XVI. Anche se, dice al Riformista un porporato vicino al Pontefice, Ratzinger è ben capace di tenere diritto il timone della Chiesa. E ne è capace nonostante le critiche esterne e, soprattutto, interne. Lo dimostrerà di qui a luglio, pubblicando l’enciclica sociale che pare abbia la data del 19 marzo, festa di San Giuseppe, e smuovendo un po’ gli organismi di governo della sua curia. Cambieranno gli oltre 75enni cardinali Renato Raffaele Martino, Javier Lozano Barragan, Walter Kasper, l’ottantenne presidente dell’Ufficio del lavoro Francesco Marchisano, l’84enne Andrea Cordero Lanza di Montezemolo e il 77enne James Francis Stafford. Anche i quasi 75enni Franc Rodé e Claudio Hummes lasceranno, mentre rimarrà al proprio posto il segretario di Stato Tarciso Bertone. Quanto al capo dei vescovi, il 75enne Giovanni Battista Re, pare continui il suo lavoro per tutto il 2009. Padre Federico Lombardi, capace direttore della sala stampa, ma ingolfato dai troppi incarichi, dopo il viaggio in Terra Santa dovrebbe lasciare. Mentre per le seconde file della segretaria di Stato si attende un non facile discernimento da parte dello stesso Pontefice. Anche qui, però, vi sono date o svolte di carriera che dovranno trovare soluzione.
Ratzinger, dunque, sa come gestire i dissidi, quelli esterni e quelli interni alla Chiesa. Perché di questo si tratta: oltre agli attacchi sul caso Williamson, e quelli delle cancellerie di mezza Europa a seguito delle parole dedicate ai «preservativi» (ancora ieri Parigi ha confermato tutte le critiche esposte una settimana fa), ci sono le intemperanze interne, quelle dei vescovi dei vari Paesi europei, particolarmente violente non soltanto sulla questione lefebvriana ma anche su alcune nomine mal digerite da quei presuli che, nei vari Paesi del mondo, hanno particolare potere all’interno delle proprie conferenze episcopali.
Molti di questi vescovi accusano Ratzinger di non sapersi spiegare. Ma dimenticano chi è Joseph Ratzinger: un Papa colto, anzi coltissimo, e pio. In pochi sanno capire la contemporaneità come lui. Il suo dire è razionale, tipico della logica e della metafisica. Offre sempre delle risposte razionali ai problemi e, per questo, non può che prescindere dalle reazioni emotive che nel mondo queste suscitano. Il mondo, spesso impregnato di irrazionalità soprattutto quando si definisce “razionalista”, fatica a comprenderlo perché ha una reazione emotiva, e spesso, all’emotività non sa andare oltre, così come si ferma su casi particolari e non va all’universale.
Anche nella Chiesa c’è chi non comprende questo tratto dell’attuale Pontefice. Accanto a tanti vescovi a lui fedeli ve ne sono alcuni in una posizione avversa, e questi, seppure in minoranza, sovente hanno l’amplificatore dei potentati che perseguono i propri disegni. Non si tratta di vere e proprie faide. Quanto di una malattia che dal Vaticano II in poi ha assunto la sostanza della cronicità, un’infezione non proveniente dal Concilio ma dal “paraconcilio”: una malattia di lunga data.
Dai lavori conciliari in poi si è diffusa un’anti-romanità difficilmente arginabile. Il bersaglio, dunque, non è anzitutto Ratzinger. Ma Roma e la sua primazialità. Il nemico è una concezione del governo della Chiesa che in Roma, al posto di una guida sicura, ha visto semplicemente un coordinamento di fondo in grado soltanto di garantire una generalizzata unità. È stata una scorretta esegesi del Concilio a volere che crescessero senza misura le dimensioni delle diverse conferenze episcopali: quelle stesse conferenze che Ratzinger, in un’intervista del 1985, aveva negato avessero una base teologica. Ufficio dopo ufficio, struttura dopo struttura, nel mondo si sono creati dei piccoli Vaticani regionali che si sono sempre più allontanati dalla costituzione gerarchica della Chiesa, ovvero da quella concezione del governo che prevede che ogni vescovo abbia una responsabilità personale sui propri fedeli in un quadro di «comunione organica». Le conferenze hanno valorizzato sé stesse, il proprio potere interno e non, appunto, quella «comunione organica» tanto cara ai testi del Concilio.
Le conferenze, molto spesso, in nome di una fantomatica democraticità di governo peraltro mai verificata, hanno finito per opporsi a Roma andando a valorizzare quelle personalità che, al proprio interno, più avevano carisma sui media e nell’opinione pubblica. Quei vescovi che hanno avuto più presa sui giornali, sulle tv, che hanno voluto impostare il proprio incarico più sulle pubbliche conferenze in giro per il mondo che sulla cura della anime presenti nella propria diocesi, quei vescovi “itineranti” più che residenziali, hanno preso sempre più autorità all’interno dell’episcopato del proprio Paese divenendo, senza mai dirlo esplicitamente, una sorta di contropotere forte al Papa e al governo stesso di Roma.
Si tratta di enormi sovrastrutture che, talvolta, opprimono i singoli successori degli apostoli che, invece, proprio nel Papa, trovano la garanzia della loro libertà. Un contro-potere difficile da gestire, come i recenti casi delle intemperanze verificatesi contro il Papa da parte delle conferenze episcopali tedesche e austriache hanno ben dimostrato. Il cardinale Karl Lehmann ha pubblicamente attaccato Benedetto XVI per la revoca della scomunica ai lefebvriani mentre la nomina di Gerhard Wagner quale vescovo ausiliare di Linz è stata apertamente respinta con disprezzo da tutta la conferenza episcopale austriaca, e ora si capisce, come testimoniano vari siti web, che coloro che hanno rimescolato le carte per ottenere la revoca della nomina erano dei sacerdoti che vivono attualmente in stato di concubinato. Tutto è emerso anche dalle pagine dei quotidiani austriaci: ma se si intervistassero oggi i responsabili dei singoli vertici delle conferenze episcopali, questi direbbero d’essere in perfetta comunione con il Papa.
I fautori dell’ermeneutica della rottura del Vaticano II sono un’onda ancora oggi ben organizzata. Ratzinger lo sa e per questo il primo discorso d’importanza capitale del suo pontificato, quello del 22 dicembre 2005, fu diretto a loro: l’ermeneutica della rottura è sbagliata, spiegò Benedetto XVI. Ma è una battaglia atavica: già Giovanni XXIII, suo malgrado, venne descritto dai fautori dell’ermeneutica della rottura come il Pontefice della fine della Chiesa monarchica. Ci provarono anche con Paolo VI, salvo poi ricredersi a motivo dell’uscita dell’“Humanae Vitae”, l’enciclica che per i suoi contenuti per nulla accondiscendenti verso le istanze della mondanità, segnò l’inizio della seconda fase del pontificato montiniano, quella della sofferenza per le ingiurie e le calunnie subite. Anche Wojtyla, forse più di Ratzinger, venne contestato apertamente per le posizioni prese su sesso, amore, aborto, matrimonio. Dalla “Redemptor Hominis” in poi, divenne il Pontefice di una visione troppo polacca della Chiesa, troppo poco “cattolica”. Ma le contestazioni non lo hanno mai piegato. Né piegheranno Ratzinger il quale, senz’altro, non si farà vincere dall’emotività. E alle personalità francesi che su Le Monde hanno pubblicato una lettera aperta chiedendogli di tornare sulle sue dichiarazioni a proposito dei preservativi e dell’Aids, non risponderà certo con una ritrattazione.